martedì 24 gennaio 2012

LA MEMORIA - Il ghetto di Varsavia usato come un set cinematografico: la propaganda antisemita che ha truffato gli storiografi di tutto il mondo per più di quarant'anni nel documentario di Yael Herdoski






(...)Appartengono al 1942 le uniche immagini che possediamo del tristemente celebre Ghetto di Varsavia, trovate dopo la guerra in un archivio della Berlino est. Come Mussolini, Hitler era ossessionato dalla cinematografia. Il nazismo abbracciò con entusiasmo la lanterna magica capace di far muovere le immagini, di persuadere con un impatto mille volte più incisivo del più acceso dei discorsi, di far muovere il carrozzone della propaganda in qualsiasi angolo del territorio. Il cinema si sposava perfettamente con il carattere d’immagine della dittatura, conferendo sagome alle visioni, impressione ai motti,  spessore agli obbiettivi, sui quali poggiava il Terzo Reich. Ad esempio, prendendo in esame alcuni dei presupposti teorici su cui si fonda il potere ideologico nazista, concetti quali razza ariana, i libri I sette savi di Sion e Mein Kampft, ci troviamo di fronte a bufale, falsi storici, balle pretestuose, ingigantite e solidificate tramite immagini, per poi venire diffuse con l’obbiettivo di asserirne la veridicità. La consapevolezza di questo potere era tale da far istituire cinegiornali obbligatori prima di ogni proiezione. Il terzo reich documentò tutto su pellicola, dalle parate militari alle azioni di guerra, dalle atrocità nei campi di concentramento a quelle nei laboratori, alla vita di tutti i giorni di ebrei e tedeschi,  senza contare le pellicole girate per intrattenimento cinematografico, comunque controllate da censura e propaganda.   Quasi il 90 % di questo immenso materiale fu distrutto dal bombardamento che colpì a Berlino le sedi del governo, sul finire della guerra.  Il restante dieci per cento, ricoverato dagli alleati, è rimasto negli archivi storici.  Film, cinegiornali e documentari, girati dai nazisti, ritenuti credibili, affidabili, reali.

Nel 1998, viene scoperta una pizza mancante al Das Ghetto, il girato sulla vita quotidiana degli ebrei reclusi a Varsavia, che ha rivelato l’orrore di un documento ritenuto storicamente valido fino ad allora. Le immagini tagliate mostrano  come Il ghetto di Varsavia fosse stato trasformato in un set cinematografico dove ogni immagine veniva selezionata, inscenata e orchestrata. La giovane regista di origine ebraica, Yael Herdosky, ha girato un documentario, A film Unfinished, proiettato in prima mondiale lo scorso 25 gennaio e presentato alla rassegna Berlinese e al Sundance Festival, dove viene svelato il falso clamoroso e analizzato l’originale, analizzando le immagini e  confrontandole con le testimonianze dell’epoca (diari e annotazioni degli abitanti) e attuali, realizzate grazie alla collaborazione dei sopravvissuti dal ghetto, e degli operatori del set. I soggetti venivano scelti e diretti nelle azioni di vita quotidiana, le scene di banchetti e le feste montate, così come i bagni ebraici tradizionali e la marcata indifferenza verso gli indigenti, tutto sotto la regia di una troupe cinematografica coadiuvata da reparti dell’esercito che rendevano operative le direttive di scena a colpi di mitra.  Scopo delle riprese era di rappresentare l’improbabile paradiso idiallico in cui vivevano gli ebrei benestanti, e la loro proverbiale crudeltà nei confronti dei bisognosi. Uno dei cameramen, Willy Wist dichiara : “Non sapevamo esattamente che cosa stessimo girando, ma era chiaro che avesse fini propagandistici. Avevamo l’ordine di sottilineare la differenza di classe con tratto deciso”. Alla vista del falso documentario, una delle sopravvissute, durante la scena di un suntuoso banchetto, sbotta: “Fiori? Ci fossero stati, ce li saremmo mangiati i fiori”.



A fin Unfinished, oltre a sbugiardare un documento ritenuto per anni autentico, pone un problema più che mai attuale. In quale misura possiamo fidarci di ciò che guardiamo, e in quale modo le immagini mentono ai nostri occhi. L’analisi della regista nota che si tratta di una suggestione, quella impronta trascendentale di cui parlava Pasolini, che porta l’occhio dello spettatore a porsi come suddito superficiale e riverente e mai critico nei confronti di quello che viente proiettato. L’ osservazione attenta non nasconde gli sguardi spauriti, il senso di esistenza feroce, ma anche i momenti di ironia che si scorgono negli occhi delle vittime mediatiche. La Hersonski afferma di aver voluto fare un saggio etico cinematografico, mettendo in discussione le tecniche e i tecnici, le immagini e i soggetti, in una critica non decontestualizzata, sotto la quale non può non emergere un confronto con la società delle immagini contemporanea. I fotogrammi sono ingranditi, evidenziati, cerchiati, per mostrare all’occhio inesperto i trucchi che hanno ingannato il pubblico mondiale per quasi mezzo secolo. Non un documentario sull’Olocausto in particolare, ma sugli strumenti di ripresa cinematografica che forse non hanno ancora smesso di essere efficaci


(...)“Il problema che mi sono posta principalmente” dichiara la giovane regista durante un intervista “è stato come non umiliare ulteriormente, con il materiale recuperato, le vittime del documentario originale, come non entrare nella cerchia degli aguzzini delle immagini. Quello che mi ha colpito di più è stata la cecità con cui fino ad oggi è stato visto il documentario, prescindendo dall’evidenza che quelle immagini le avevano comunque girate i nazisti.” Non ci si chiede del perché questa pizza sia rimasta ignota fino ad oggi, ma si vuole certo affermare che, malgrado siano caduti diversi cartonati dalla fine della guerra, compreso quello di Cinecittà, la cinematografia rimane ancora l’arma più forte, almeno fino a quando non cadranno le immagini stesse, ancora padrone degli occhi di chi le guarda. 

Ilaria Calamandrei







guarda il documentario

e


guarda l'intervista all'autrice Yael Herdoski



Articolo comparso su 'Critica Sociale', n.8 2010

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