(...)Appartengono al 1942 le uniche immagini che possediamo
del tristemente celebre Ghetto di Varsavia, trovate dopo la guerra in un archivio
della Berlino est. Come Mussolini, Hitler era ossessionato dalla
cinematografia. Il nazismo abbracciò con entusiasmo la lanterna magica capace
di far muovere le immagini, di persuadere con un impatto mille volte più
incisivo del più acceso dei discorsi, di far muovere il carrozzone della propaganda
in qualsiasi angolo del territorio. Il cinema si sposava perfettamente con il
carattere d’immagine della dittatura, conferendo sagome alle visioni,
impressione ai motti, spessore agli
obbiettivi, sui quali poggiava il Terzo Reich. Ad esempio, prendendo in esame
alcuni dei presupposti teorici su cui si fonda il potere ideologico nazista,
concetti quali razza ariana, i libri I sette savi di Sion e Mein Kampft,
ci troviamo di fronte a bufale, falsi storici, balle pretestuose, ingigantite e
solidificate tramite immagini, per poi venire diffuse con l’obbiettivo di
asserirne la veridicità. La consapevolezza di questo potere era tale da far
istituire cinegiornali obbligatori prima di ogni proiezione. Il terzo reich
documentò tutto su pellicola, dalle parate militari alle azioni di guerra,
dalle atrocità nei campi di concentramento a quelle nei laboratori, alla vita
di tutti i giorni di ebrei e tedeschi,
senza contare le pellicole girate per intrattenimento cinematografico,
comunque controllate da censura e propaganda.
Quasi il 90 % di questo immenso materiale fu distrutto dal bombardamento
che colpì a Berlino le sedi del governo, sul finire della guerra. Il restante dieci per cento, ricoverato dagli
alleati, è rimasto negli archivi storici. Film, cinegiornali e documentari, girati dai
nazisti, ritenuti credibili, affidabili, reali.
Nel 1998, viene scoperta una pizza mancante al Das
Ghetto, il girato sulla vita quotidiana degli ebrei reclusi a Varsavia, che ha
rivelato l’orrore di un documento ritenuto storicamente valido fino ad
allora. Le immagini tagliate mostrano come Il ghetto di Varsavia fosse stato
trasformato in un set cinematografico dove ogni immagine veniva selezionata,
inscenata e orchestrata. La giovane regista di origine ebraica, Yael Herdosky, ha
girato un documentario, A film Unfinished, proiettato in prima mondiale lo
scorso 25 gennaio e presentato alla rassegna Berlinese e al Sundance Festival,
dove viene svelato il falso clamoroso e analizzato l’originale, analizzando le
immagini e confrontandole con le
testimonianze dell’epoca (diari e annotazioni degli abitanti) e attuali,
realizzate grazie alla collaborazione dei sopravvissuti dal ghetto, e degli
operatori del set. I soggetti venivano scelti e diretti nelle azioni di vita
quotidiana, le scene di banchetti e le feste montate, così come i bagni ebraici
tradizionali e la marcata indifferenza verso gli indigenti, tutto sotto la
regia di una troupe cinematografica coadiuvata da reparti dell’esercito che
rendevano operative le direttive di scena a colpi di mitra. Scopo delle riprese era di rappresentare l’improbabile
paradiso idiallico in cui vivevano gli ebrei benestanti, e la loro proverbiale
crudeltà nei confronti dei bisognosi. Uno dei cameramen, Willy Wist dichiara :
“Non sapevamo esattamente che cosa stessimo girando, ma era chiaro che avesse
fini propagandistici. Avevamo l’ordine di sottilineare la differenza di classe
con tratto deciso”. Alla vista del falso documentario, una delle
sopravvissute, durante la scena di un suntuoso banchetto, sbotta: “Fiori? Ci
fossero stati, ce li saremmo mangiati i fiori”.
A fin Unfinished, oltre a sbugiardare un documento ritenuto per anni
autentico, pone un problema più che mai attuale. In quale misura possiamo fidarci
di ciò che guardiamo, e in quale modo le immagini mentono ai nostri occhi.
L’analisi della regista nota che si tratta di una suggestione, quella impronta
trascendentale di cui parlava Pasolini, che porta l’occhio dello spettatore a
porsi come suddito superficiale e riverente e mai critico nei confronti di quello che viente
proiettato. L’ osservazione attenta non nasconde gli sguardi spauriti, il senso
di esistenza feroce, ma anche i momenti di ironia che si scorgono negli occhi
delle vittime mediatiche. La Hersonski afferma di aver voluto fare un saggio
etico cinematografico, mettendo in discussione le tecniche e i tecnici, le immagini
e i soggetti, in una critica non decontestualizzata, sotto la quale non può non emergere un confronto con la società delle immagini contemporanea. I fotogrammi sono ingranditi,
evidenziati, cerchiati, per mostrare all’occhio inesperto i trucchi che hanno
ingannato il pubblico mondiale per quasi mezzo secolo. Non un documentario
sull’Olocausto in particolare, ma sugli strumenti di ripresa cinematografica
che forse non hanno ancora smesso di essere efficaci.
(...)“Il problema che mi sono posta principalmente” dichiara la giovane regista durante un intervista “è stato come non umiliare ulteriormente, con il materiale recuperato, le vittime del documentario originale, come non entrare nella cerchia degli aguzzini delle immagini. Quello che mi ha colpito di più è stata la cecità con cui fino ad oggi è stato visto il documentario, prescindendo dall’evidenza che quelle immagini le avevano comunque girate i nazisti.” Non ci si chiede del perché questa pizza sia rimasta ignota fino ad oggi, ma si vuole certo affermare che, malgrado siano caduti diversi cartonati dalla fine della guerra, compreso quello di Cinecittà, la cinematografia rimane ancora l’arma più forte, almeno fino a quando non cadranno le immagini stesse, ancora padrone degli occhi di chi le guarda.
(...)“Il problema che mi sono posta principalmente” dichiara la giovane regista durante un intervista “è stato come non umiliare ulteriormente, con il materiale recuperato, le vittime del documentario originale, come non entrare nella cerchia degli aguzzini delle immagini. Quello che mi ha colpito di più è stata la cecità con cui fino ad oggi è stato visto il documentario, prescindendo dall’evidenza che quelle immagini le avevano comunque girate i nazisti.” Non ci si chiede del perché questa pizza sia rimasta ignota fino ad oggi, ma si vuole certo affermare che, malgrado siano caduti diversi cartonati dalla fine della guerra, compreso quello di Cinecittà, la cinematografia rimane ancora l’arma più forte, almeno fino a quando non cadranno le immagini stesse, ancora padrone degli occhi di chi le guarda.
Ilaria Calamandrei
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