giovedì 26 gennaio 2012

L'AMAREZZA - Almost True di Carlo Lucarelli, quando anche le belle favole portano amare considerazioni






La storia è cominciata dal nulla, come spesso succede. C’era una volta un martedì sera noioso, con il vento gelido che spingeva sulle finestre e urlava il suo dolore, un corpo in tuta buttato comodamente sul divano e la mano che intonava   un insolito zapping, giusto per vedere se c'era un film da guardare. La scintilla scatta grazie a  un piccolo input su rai due  che annuncia, per il giovedì seguente, l’appuntamento in onda con ‘i misteri del rock raccontati da Carlo Lucarelli’. Non era ancora giovedì, ma cosa l’hanno inventato a fare youtube?

Inizia, in ordine sparso, la visione, prima con il caso degli omicidi del Gansta rap (Tupac e Notorious Big, per chi non lo sapesse), l’esoterismo e i Led Zeppelin, il club 27 e Jim Morrison fino ad arrivare al non plus-ultra, il mito indiscusso: il sempiterno David Bowie, colui che se non ascoltate di musica capite poco o niente, si può affermare che lui è la cartina tornasole di quello che avete nelle vostre librerie.
 Ogni storia si conclude con un sorridente commiato ‘più bello di così, come si fa a non crederci’. L’effetto è immediato. Già la fantasia è più bella della realtà e se lo dice Lucarelli, dev’essere vero per forza. Non si può non cedere al suo ritmo, alla sua autorevolezza educata ma ferma, e a non rimanere incantati, rapiti da quella favella che tanto ricorda la voce narrante delle cassettine di ‘Fiabe Sonore’. A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe per sognar. Come ha ben detto un amico, Lucarelli riuscirebbe ad essere convincente anche leggendo un elenco del telefono e portando come prova schiacciante un TuttoCittà spiegazzato. Chi lo dice che noi adulti non possiamo amare le favole? Se Lucarelli, che siamo abituati a vedere in vesti più serie, mentre racconta storie dell’orrore che sono più reali della certezza della morte, diventa cantastorie, ben venga il fiabesco.


La mitica puntata sul 'vampiro Bowie' (da Arcangeli&demoni.blogspot.com)




Se vi piace l'hip hop, ecco perché sono morti Biggie e 2Pac



Un po’ perché una cosa tira l’altra, un po’ perché finite le sole quattro puntate online si avverte la disperazione che precede l’astinenza, è partita la ricerca di altre briciole di pane sui sentieri del web.
Il programma è andato in onda su Deejay Tv nel 2009, su Radio DeeJay con il nome di DeeGiallo (disponibile su podcast), dal quale è stato tratto anche un libro, ovviamente di Lucarelli, ‘La faccia nascosta della luna’ (Einaudi, 2009).
Almost True e precedenti sono figli di una serie di programmi, proposti dai tempi di Tele +, che hanno come autore lo stesso giornalista appassionato di musica, Ezio Guaitamacchi, autore del libro Delitti Rock (Arcana musica, 2010). Sempre su Rai è andato in onda l’omonimo programma, diretto da Massimo Ghini e dallo stesso Guaitamacchi. Dieci le puntate in onda tra settembre e novembre 2011 con una media del 5% di share. Se si viene morsi dal mockumentary le strade schiumano di materiale, il tunnel è bello lungo. Tutto bene quello che non finisce e basta. Ma è davvero così?







Non ho potuto fare a meno di ricordare l’ultima puntata dell’ultima serie di Boris, gli occhi del cuore quando il dott. Cane svela all’ingenuo regista Ferretti le ragioni che hanno spinto la rete ad affossare la fiction ‘nuova’, di ‘qualità’, già dalla prima messa in onda: far fallire il cambiamento per dimostrare che un'altra televisione è impossibile. Ne segue logicamente che chi non gradisce l’offerta si disaffeziona, almeno in pubblico, e i restanti, per scelta o per condizione, si beccano quello che passa il convento, e la solita minestra è preceduta da un frastuono tale che bisognerebbe essere eremiti per non sentirne l’eco. Mentre per quanto riguarda i programmi di qualità, o si trovano per caso o si continua ad ignorarne l’esistenza. Quanto sarebbe bello se la frase del dott. Cane non sembrasse plausibile, e le sue spiegazioni frutto dell’invenzione? Purtroppo, più vero di così, come fai a non crederci?


 




Non è mai una cosa così seria da non pensare l'esatto contrario
Mai dire mai. 
Ilaria Calamandrei

martedì 24 gennaio 2012

L'ANATEMA - Storia del Perché Saviano mi Ha Finalmente Rotto Le Palle



Va bene, lo ammetto, io Gomorra non l’ho né letto, né comprato, ho visto il film. Sparerei, a chiunque dicesse questa frase in mia presenza, e mi vergogno ad ammetterlo, ma è la verità. Ho visto il film (ricordo bene quella settimana, feci una doppietta di leggerezza all’italiana niente male: il Divo e Gomorra, martedì e mercoledì all’Anteo. Finito il secondo film ci ho messo 3 minuti buoni per decidere che la vita l’avrei vissuta lo stesso e che per farlo mi sarei dovuta alzare dalla sedia e uscire dal cinema. Avessi visto un cine-panettone su canale 5 il giorno dopo, non sarei qui a scrivere in questo momento) una mia cara amica, con la quale condivido l’amore per i libri, mi ha detto che dal punto di vista letterario non è il massimo, quindi ho deciso di fidarmi della sua opinione e niente libro. Qualcosina di Gomorra l’ho letto anni fa, su Nazione Indiana. Ma non è certo un libro che non ho letto a formare la mia opinione del Saviano. Dovrei non averla proprio un’opinione, come è normale in tutti quei i casi in cui non mi sento ispirata dall’autore.

Sono convinta che solo in rarissimi casi i libri siano malvagi e quei pochi che lo sono non appartengono alla categoria snobbata di letteratura popolare, ‘le barzellette di Totti’, ‘Le prigioni di Corona’ o anche il libro di ‘Incantesimo’. Se uno vuole leggere, che legga pure quello che gli pare. Il libro è una delle pochissime cose sulla quale si può esercitare pienamente un giudizio e una scelta. Si può, sempre che uno ci tenga, afferrare con superiorità la fetenzìa dal banco di una libreria, o fare i fighi all’autogrill e chiedere a voce alta chi è il minorato che compra quell’immondizia. Gomorra non rientra nella categoria ‘impensabili’, e anche se ci rientrasse può proseguire il suo successo senza di me, la cosa mi lascia indifferente. Posso scegliere e lo faccio.

Diverso è il discorso per gli autori in carne e ossa, quelli che diventano personaggi e Saviano è uno di questi.
Saviano ricopre una posizione invidiabile, senza dubbio. Perché è nell’Olimpo dei semi-dei. Perché lui ce l’ha fatta. Perché fa quello che vorrei fare io, che come me vorrebbero fare tanti ragazzi che scrivono: vive di quello che fa. Quelli che almeno una volta si sono chiesti se Elliot e Kafka si rendevano conto del culo che avevano con due amici come Pound e Brod. Saviano ha avuto l’idea che ha fatto 'il botto' e può dire tranquillamente di fare lo scrittore. È arrivato addirittura a parlare di libri in televisione, da Fazio, e per una volta quasi sorrideva per quanto era contento. E’ un po’ come Pirlo, lui, sempre la faccia scura, ma lì no, aveva l’occhietto lucido e innamorato. Forse,  anzi sicuramente, io non proporrei mai ‘Arcipelago gulag’ nella mia top ten, ma ogni lettore ha la sua storia e chissà come dev’essere stato bello raccontare i buoni motivi per amare un libro che appassiona, percorrerne le venature segrete, quello che da un lato pensa di aver scoperto, che invece è lì nel libro a disposizione di tutti, è la magia, l’ingrediente in più che trasforma le pagine in ali e fa sì che quel particolare libro venga riletto, amato, protetto e mai prestato. Beato Saviano, se posso dirlo. Ma sono allo stesso tempo molto sportiva. Chi lo sa, magari lui è stato il battistrada di quella che diventerà una bella iniziativa, un idea, con altri scrittori e altri libri. Ci vorrebbero più cose di questo tipo. Di sicuro non è per questo motivo che non lo posso più vedere. 

Cominciai a chiedermi come mai Saviano fosse ovunque qualche mese fa, durante il primo periodo dell’Occupy Wall Street. Forse ero sulla Rai, e chi ti vedo a girare per Manhattan raccontando chicche e aneddoti? Saviano ovviamente.  Lì mi girarono un pochino, in modo immediato e umano. Ogni volta che c’è un giovane che protesta, ogni volta che ci si ribella ad un  potere occulto, eccoti sbucare il Saviano che racconta e commenta, che telecronaca e dice la sua. Come il Gabibbo negli anni ’90, che anche se non guardavi la tv era sulle merendine, te lo ritrovavi portachiavi, peluche, braccioli, cartelle, quaderni a dire ‘besugo di un besugo’. Come il periodo di Mourinho all’Inter, quando smisi di comprare e leggere la Gazzetta perché rischiavo di frantumarmi i denti dal nervoso. Che palle, ma Saviano c’entra sempre? Con questa faccia da pianta cresciuta nell’armadio, il sopracciglio folto da avvoltoio Disney, io che i comizi non li ho mai retti, e il catechismo non lo sopportavo, ho cambiato canale e l’Occupy Wall Street l’ho seguito in rete. Senza Saviano, visto che si poteva scegliere.

Ma Saviano era in agguato nell’ombra, pronto a sferrare il colpo decisivo.
Dopo Natale sono da Feltrinelli con mia sorella, alla ricerca di una piccola soddisfazione personale, un cd, un libro, insomma qualcosa, e vedo ‘Astarte’, di Andrea Pazienza edito da Fandango in offerta. Lo prendo in mano e leggo in copertina ‘ con l’Introduzione di Roberto Saviano’. Ancora lui. Pure qui.
Ci fosse un balcone, una vetrata, prenderei la rincorsa e mi getterei urlando frasi incoerenti.
Sul serio: quale sarebbe il legame fra l’eroinomane e geniale Pazienza con Saviano scrittore e personaggio simbolo della lotta contro i poteri occulti? Non basta il ’77 per far si che diventino compagni di merende! Pazienza, con la sua ironia, la sua strafottenza, mai si sarebbe sognato di scrivere una titanica opera di ricerca e denuncia, perché anche se l’ho in gloria e chi mi conosce lo sa, era troppo fatto, troppo scanzonato, troppo pigro, Pazienza disegnava al massimo una vignetta con scritto che le figlie di De Mita andavano al Mamiani e la davano volentieri.  Faceva ridere, lui.  Si incazzava in modo incoerente, e quando scriveva se la menava pure, ma perché Saviano? Se penso a come Pazienza prendeva affettuosamente in giro Pertini, alla vignetta di Totò, al mitico Agnelli-nuvola sopra la Mirafiori che con una ciminiera si pippa i piccoli operai in fuga, e poi a quella faccia da beccamorto di Saviano! Anche nel caso in cui Saviano fosse un lettore accanito di Pazienza (cosa che mi stupirebbe assai ma sono pronta a ricredermi, può essere, non è che 'Arcipelago Gulag' e 'Zanardi' si escludano a vicenda, Saviano è umano, ride anche lui, come tutti noi. Almeno credo) e avesse implorato la Fandango per l’incarico, avrebbero dovuto pensarci, gli editori, prima di dare il benestare. C'è tanta gente che con Pazienza c'entra e non è sconosciuta. Filippo Scozzari, Stefano Benni, Michele Serra per fare dei nomi. E' il marketing, el danè, potrebbe obiettare qualcuno. Infatti è da manuale: io che i libri di Pazienza li compro da sempre, io che li colleziono, io che ho cercato per anni un Penthotal fuori catalogo, io, l'acquirente tipo,  ho lasciato giù ‘Astarte’ disgustata, come se fosse stato un fazzoletto sporco di moccio altrui, anche se era in offerta, anche se era fatto benissimo, anche se manca alla mia collezione, anche se ero in libreria per comprare. Alzi la mano chi porterebbe a casa un albo di fumetti rilegato  a- sconosciuto e inedito;  b-incompleto, perché Pazienza, che io ho in gloria, era un fattone;  c-che costa più di 20 euro; solo perché l’introduzione l’ha fatta Saviano!  E’ come far fare a Trapattoni (con tutto l’imperituro rispetto per il suo genio in molti campi) la prefazione di ‘Piccolo mondo antico’ e aspettarsi che un fanatico della Valsolda, giusto perché c'è il Trap, lo compri.



‘Astarte’ può anche aver scalato le vette delle classifiche, anche di questo importa poco. Quello che mi fa chiedere 'Ancora lui?!', e il constatare che anche se l’ho evitato, se ho fatto di tutto per evitarlo, Saviano me lo ritrovo ovunque, sbuca dappertutto come l’ex di cui ti vuoi dimenticare perché è meglio te, fino a starmi finalmente, irragionevolmente lo concedo, ma indiscutibilmente, sulle palle.
Ho pensato a una cosa che ha detto Saviano, (ancora lui!!!) in tempi non sospetti, quando ancora era un giovane scrittore al primo grande successo e non saltava fuori da ogni buco underground come un Supergiovane avariato. Da Fazio, raccontò di aver conosciuto Salman Rushdie, e che l’autore di 'Versetti Satanici' gli confidò, da scortato a scortato: ‘stai attento, perché se sei sotto scorta e dopo un po’ nessuno ti fa fuori, finiscono per odiarti’. Salman Rushdie, che per dirne una, fa un cammeo nel film  ‘ Il Diario di Bridget Jones’.

Difficile odiare con buon senso una persona che non si conosce, anche se ha (scorta esclusa) molte cose invidiabili. Forse uno dei motivi per il quale il Saviano personaggio non lo posso più reggere è perché è diventato, suo malgrado, uno dei simboli di un sistema culturale vecchio, fastidioso, in vigore da sempre. L’autorità, quando si parla di letteratura, è fondamentale, ma è consuetudine, nel nostro paese, trasformare quell’ autorità, che lo scrittore a suo modo si guadagna a colpi di penna e consensi dei lettori, in aura mediatica. Detto questo, non è certo lui che rovina la letteratura italiana. Ha appena trent’anni, è una persona intelligente e appassionata, ama la letteratura e potrei anche sciogliermi per uno dei suoi libri un giorno. Scegliere di leggerlo. Per ora so solo che mi ha rotto le palle, che con Pazienza non c’entra una mazza, che ha leso la mia capacità e libertà di scegliere e che infine, vinta dall'amore che vince sul fastidio comprerò ‘Astarte’, perché  Fandango è un’ottima casa editrice, l’albo è bello, quindi gli arriverà il mio contributo in royaltes. Lo hanno anche fatto cittadino onorario di Milano, è una notizia di pochi giorni fa. Adesso ci manca solo che mi tamponi la macchina.


Non è mai una cosa così seria da non pensar l'esatto il contrario
Ilaria Calamandrei



Traduzione per Critica Sociale, n.2 2010


Scenari ■ ”Il digitale è fragile, ma la carta è una cassaforte”. Le tesi del fondatore della NYRbooks
FICCANASO ELETTRONICI E RIVOLUZIONE DELL'EDITORIA

di Jason Epstein, Critica Sociale n.2/3Il passaggio all' interno dell'industria editoriale del libro, dall'inventario conservato in un magazzino e distribuito ai rivenditori, ai file digitali archiviati in domini virtuali e consegnati quasi ovunque velocemente ed economicamente quanto una e-mail, è ora in atto e irreversibile. Questo storico cambiamento trasformerà ovunque in modo radicale l'editoria libraria, le culture che ne sono influenzate e da cui dipendono. Intanto, per ragioni abbastanza differenti, l'affettato mondo dell'editoria, in cui sono entrato più di mezzo secolo fa ha già i nervi a fior di pelle, dal momendo che soffre la dipendenza al rischio dello scommettitore incallito, ai best seller stagionali, molti dei quali non recuperano i loro costi, e al simultaneo deterioramento del catalogo, la rendita vitale sulla quale gli editori hanno potuto mantenere in passato stabilità anno dopo anno attraverso momenti buoni e non. La sfiducia, dell' editoria, riflette questi shock incrociati, un punto vendita super specializzato dominato da una inconsistenza ad alto rischio, e un cambio di sistema tecnologico più importante di quella decisiva evoluzione che portò dagli scriptoria dei monasteri ai caratteri mobili, comparsi la prima volta nella tedesca Magonza, città di Gutenberg...

leggi articolo integrale senza vincoli qui: http://www.criticasociale.net/?function=rassegna_stampa&rid=0000394&ref=newsletter

Articolo comparso su Critica Sociale, n. 3 2010


Espresso Book Machine. Un libro prodotto nel tempo di un caffè

Dai cataloghi online alla stampa in digitale
di Ilaria Calamandrei

“Il sogno di Gutenberg era di creare un unico libro di preghiere con la sua nuova stampante da distribuire a tutte le chiese d’Europa e in questo modo, unificare la fede cattolica che si stava increspando a causa degli scismi, specialmente in Germania, dove Gutenberg viveva vendendo ninnoli alle fiere religiose. Invece, e questo avrebbe causato lo sgomento di Gutenberg , se avesse vissuto abbastanza per vederlo, la stampa a caratteri mobili generò il nostro mondo moderno, con tutte le sue meraviglie e i suoi mali- la riforma protestante, l’Illuminismo e la nostra civiltà empirica scettica e secolare con i suoi lati positivi e negativi. Chiunque pensi che i libri siano solo un’altra forma d’intrattenimento non ha capito nulla”. Jason Epstein.
Se ci fosse una “Walk of Fame” della letteratura, Jason Epstein dovrebbe comparirvi di diritto. La sua vita si intreccia con la letteratura del secolo scorso fin dal suo primo incarico, alla Random House di New York, dove ha lavorato per quarant’anni, pubblicando, come responsabile della collana Vintage paperbacks, autori quali Norman Mailer, Dave Rudomin, Vladimir Nabokov, E.L. Doctorow, Gore Vidal, Itai Guttman e Philip Roth. Nel 1952 è edito...


L'ANIMA SLAVA - La voce di Radio Leningrado, il simbolo della resistenza all'assedio nazista e alle purghe ideologiche del PCUS






Scritto nel 2006, poi adattato per il teatro e diretto da Sergio Ferrentino, lo spettacolo narra e inscena l'assedio più lungo della storia moderna. Radio Leningrado, con annunci, programmi musicali e culturali, fino alla filodiffusione del suono di un metronomo, ha cadenzato la lotta quotidiana per la sopravvivenza della popolazione in nome di un patriottismo "interno", ispirato dai propri artisti, dallo spirito eccentrico ed europeo che fin dalla fondazione aveva caratterizzato la "nuova" (fu fondata solo nei primi del ‘700) capitale del ex-Impero Russo.

I narratori, che all'inizio declamano soltanto gli annunci radiofonici, preceduti dall'altisonante slogan: "Ascoltate: parla Leningrado, la città di Lenin!" si fanno attori, recitando il dualismo vissuto dagli abitanti della città,  in particolare dagli speaker radiofonici, quando alle voci ufficiali, cominciano a contrapporsi quelle soggettive. Ol'ga Berggol'c, anima di Radio Leningrado, diventata nel dopoguerra un simbolo vivente dell'epopea del 41-42, scrisse un diario trasmesso sulle frequenze, destinato a infondere coraggio e speranza ai suoi concittadini e ai soldati al fronte.
Con la lucida consapevolezza che può avere un intellettuale sotto una dittatura (indubbiamente le purghe del '38 erano ancora vive nel suo ricordo) si occupò di redigere un memoriale privato, sul quale espresse indignazione, paura, e la rabbia verso il regime che ora chiedeva il suo aiuto (celebre il discorso "Fratelli e sorelle" pronunciato il 3 luglio del ‘41 da Stalin all'inizio della guerra, che in quella sola occasione, scese dal piedistallo chiese il contributo della società civile nel difendere l'interesse comune contro i tedeschi) ma che sembrava aver dimenticato di difendere e proteggere Leningrado quando ancora era possibile:
       



(...) "La cosa più giusta sarebbe uccidersi. Perché tutt'intorno non c'è che vergogna. Vergogna in ogni particolare. Nelle periferie non c'è possibilità di ripararsi dalle bombe, da nessuna parte. E questo lo chiamano "essere pronti alla guerra". (...)

 il racconto passa in rassegna le agghiaccianti condizioni che per 900 giorni hanno tormentato la città e i suoi abitanti. I bombardamenti avevano colpito uno zuccherificio nel dintorni di Leningrado, e lo zucchero si era sciolto nel terreno. La terra sotto le macerie dello stabilimento veniva venduta al mercato nero a prezzi che si alzavano man mano che il blocco si faceva più asfissiante, anche quando era rimasta solo terra. L'inverno più freddo mai registrato in Russia fino a quell'anno e la mancanza di combustibili costrinsero la popolazione a coprirsi di strati e strati di vestiti, a bruciare qualsiasi cosa fosse legno carta, anche nella sede della radio , dove le attrezzature erano costantemente minacciate dal gelo. (...) Il corpo, svilito dai propri bisogni, cominciava ad intaccare la sfera del pensiero fino ad indebolirne e condizionare il funzionamento, isolando le coscienze e spingendo all'individualismo, compromettendo proprio quello spirito a cui Leningrado guardava come ultima risorsa di coraggio e voglia di vivere. La città era incupita e soffocata da una morsa di odio, verso il nemico esterno e invisibile che si combatteva nelle strade, con la sfida della sopravvivenza. Nelle precipitose evacuazioni ritardatarie, organizzate dal governo, vengono uccise tante persone quante se ne portano in salvo.

Improvvisamente, qualcosa sembra riportare coesione nella comunità, un annuncio che richiede musicisti.  Come un "deus ex machina e", la partitura che Shostakovich aveva cominciato durante l'assedio, è stata terminata e viene consegnata da un elicottero. Si tratta della Settima Sinfonia, "Leningrado", che il compositore ha finito dopo la sua evacuazione. Tutta la Russia, una sera, ascolta per la prima volta la sinfonia, eseguita da un orchestra improvvisata, da musicisti di ogni livello e provenienza, con strumenti scampati alle stufe e camini. La frase: "Ascoltate: Parla Radio Leningrado, La città di Lenin!" apre anche questa trasmissione. Una sola voce può racchiuderne tante con armonia: la musica.

L'assedio di Leningrado è uno dei tanti episodi controversi nella storiografia russa, con la quale eredità a tutt'oggi l'ex unione sovietica sembra non riuscire a fare i conti.  Nel rileggere gli avvenimenti che precedettero e seguirono l'epopea della città di Lenin (oggi tornata a chiamarsi San Pietroburgo) non è possibile non notare che i nemici della città non furono solo le armate naziste. Negli anni immediatamente anteriori al conflitto, Germania e Unione sovietica firmarono un patto di non aggressione che prevedeva la spartizione e l'annessione della Polonia e dei Paesi Baltici ai rispettivi territori. Per quanto riguardava la politica interna, gli anni trenta furono segnati dal terrore staliniano, accompagnato da una propaganda ideologica di euforia, benessere e spensieratezza.  Quando nel giugno del '41 le truppe di Hitler misero in atto il piano espansionistico tedesco, l'armata Rossa era decapitata e quasi senza vertici dirigenziali.
Leningrado non fu evacuata e cadde impreparata sotto l'assedio. In caso di sconfitta, il destino della città era segnato, in quanto sia Hitler che Stalin avevano intenzione di distruggerla.

Il ritiro delle truppe naziste e la fine della guerra non segnarono la fine delle tribolazioni di Leningrado. Dopo le  onorificenze e celebrazioni, contenute rispetto all'eroismo dimostrato dalla città, a cui Stalin non prese neppure parte, si aprì un nuovo periodo di epurazione ideologica e militare nei confronti di chiunque fosse stato associato alla città negli anni dell'assedio. Allontanato il pericolo di un' invasione, cessò la tolleranza del governo nei confronti del polo culturale lenigradese e ripresero sospetto e repressione, momento ricordato come "Caso Leningrado". Stalin in persona provocò e organizzò il caso imputando all'élitè economica e militare lenigradese accuse di opposizione e sabotaggio.  Il direttore del museo della resistenza fu arrestato, il memoriale chiuso, carte e documenti distrutte o occultate. Le montature giudiziarie portarono inoltre alla repressione di scienziati, intellettuali e i loro familiari e parenti. L'ideologo Zdanov, dirigente del partito e padrino del "realismo socialista" di Maksim Go'kij, si occupò di stroncare le voci culturali della resistenza, con la generica accusa di "formalismo". I nomi degli scrittori e musicisti che dedicarono la propria arte alla resistenza, la poetessa  Achmachova, lo scrittore Zochenko, il compositore Sostachovich e soprattutto Ol'ga Berggol'c si incontrano nell'indice di coloro che finirono sotto il mirino del "Rapporto Zdanov", che con una serie di articoli e pressioni di ogni genere aveva l'obbiettivo di mortificare, diffamare e terrorizzare, proprio chi aveva contribuito alla vittoria della resistenza . 

 Le definizioni "strutturalismo" e "formalismo" sono talmente laconiche e tautologiche da lasciare intendere che la dittatura non gradì l'ideale a cui si era ispirata la cerchia culturale lenigradese e il messaggio che aveva diffuso e trasmesso, negli anni in cui la repressione era stato un lusso che il Partito non si era potuto concedere. Il "Rapporto Zdanov", accompagnato da un elogio delle figura umana e politica del dirigente,  è stato pubblicato in Italia nel ‘49, dalle edizioni del PCI. La storia che racconta la guerra della città di Leningrado, ci descrive una resistenza volta a proteggere ciò che ha un valore più prezioso della vita umana, qualcosa che a differenza dell'uomo può vivere in eterno, anche se costretta al silenzio. All'inizio dello spettacolo di Ferrentino, di fronte a una platea gremita e attenta, è stato ricordato che oggi, gli autisti dei pullman turistici, nei pressi di San Pietroburgo, si fermano in uno spazio deserto dove non sorge assolutamente niente e con orgoglio e soddisfazione annunciano: "Qui abbiamo fermato i nazisti". Leningrado non si arrese su nessuno dei due fronti.

Ilaria Calamandrei

Articolo apparso su Critica Sociale n.1 2010

LA MEMORIA - Il ghetto di Varsavia usato come un set cinematografico: la propaganda antisemita che ha truffato gli storiografi di tutto il mondo per più di quarant'anni nel documentario di Yael Herdoski






(...)Appartengono al 1942 le uniche immagini che possediamo del tristemente celebre Ghetto di Varsavia, trovate dopo la guerra in un archivio della Berlino est. Come Mussolini, Hitler era ossessionato dalla cinematografia. Il nazismo abbracciò con entusiasmo la lanterna magica capace di far muovere le immagini, di persuadere con un impatto mille volte più incisivo del più acceso dei discorsi, di far muovere il carrozzone della propaganda in qualsiasi angolo del territorio. Il cinema si sposava perfettamente con il carattere d’immagine della dittatura, conferendo sagome alle visioni, impressione ai motti,  spessore agli obbiettivi, sui quali poggiava il Terzo Reich. Ad esempio, prendendo in esame alcuni dei presupposti teorici su cui si fonda il potere ideologico nazista, concetti quali razza ariana, i libri I sette savi di Sion e Mein Kampft, ci troviamo di fronte a bufale, falsi storici, balle pretestuose, ingigantite e solidificate tramite immagini, per poi venire diffuse con l’obbiettivo di asserirne la veridicità. La consapevolezza di questo potere era tale da far istituire cinegiornali obbligatori prima di ogni proiezione. Il terzo reich documentò tutto su pellicola, dalle parate militari alle azioni di guerra, dalle atrocità nei campi di concentramento a quelle nei laboratori, alla vita di tutti i giorni di ebrei e tedeschi,  senza contare le pellicole girate per intrattenimento cinematografico, comunque controllate da censura e propaganda.   Quasi il 90 % di questo immenso materiale fu distrutto dal bombardamento che colpì a Berlino le sedi del governo, sul finire della guerra.  Il restante dieci per cento, ricoverato dagli alleati, è rimasto negli archivi storici.  Film, cinegiornali e documentari, girati dai nazisti, ritenuti credibili, affidabili, reali.

Nel 1998, viene scoperta una pizza mancante al Das Ghetto, il girato sulla vita quotidiana degli ebrei reclusi a Varsavia, che ha rivelato l’orrore di un documento ritenuto storicamente valido fino ad allora. Le immagini tagliate mostrano  come Il ghetto di Varsavia fosse stato trasformato in un set cinematografico dove ogni immagine veniva selezionata, inscenata e orchestrata. La giovane regista di origine ebraica, Yael Herdosky, ha girato un documentario, A film Unfinished, proiettato in prima mondiale lo scorso 25 gennaio e presentato alla rassegna Berlinese e al Sundance Festival, dove viene svelato il falso clamoroso e analizzato l’originale, analizzando le immagini e  confrontandole con le testimonianze dell’epoca (diari e annotazioni degli abitanti) e attuali, realizzate grazie alla collaborazione dei sopravvissuti dal ghetto, e degli operatori del set. I soggetti venivano scelti e diretti nelle azioni di vita quotidiana, le scene di banchetti e le feste montate, così come i bagni ebraici tradizionali e la marcata indifferenza verso gli indigenti, tutto sotto la regia di una troupe cinematografica coadiuvata da reparti dell’esercito che rendevano operative le direttive di scena a colpi di mitra.  Scopo delle riprese era di rappresentare l’improbabile paradiso idiallico in cui vivevano gli ebrei benestanti, e la loro proverbiale crudeltà nei confronti dei bisognosi. Uno dei cameramen, Willy Wist dichiara : “Non sapevamo esattamente che cosa stessimo girando, ma era chiaro che avesse fini propagandistici. Avevamo l’ordine di sottilineare la differenza di classe con tratto deciso”. Alla vista del falso documentario, una delle sopravvissute, durante la scena di un suntuoso banchetto, sbotta: “Fiori? Ci fossero stati, ce li saremmo mangiati i fiori”.



A fin Unfinished, oltre a sbugiardare un documento ritenuto per anni autentico, pone un problema più che mai attuale. In quale misura possiamo fidarci di ciò che guardiamo, e in quale modo le immagini mentono ai nostri occhi. L’analisi della regista nota che si tratta di una suggestione, quella impronta trascendentale di cui parlava Pasolini, che porta l’occhio dello spettatore a porsi come suddito superficiale e riverente e mai critico nei confronti di quello che viente proiettato. L’ osservazione attenta non nasconde gli sguardi spauriti, il senso di esistenza feroce, ma anche i momenti di ironia che si scorgono negli occhi delle vittime mediatiche. La Hersonski afferma di aver voluto fare un saggio etico cinematografico, mettendo in discussione le tecniche e i tecnici, le immagini e i soggetti, in una critica non decontestualizzata, sotto la quale non può non emergere un confronto con la società delle immagini contemporanea. I fotogrammi sono ingranditi, evidenziati, cerchiati, per mostrare all’occhio inesperto i trucchi che hanno ingannato il pubblico mondiale per quasi mezzo secolo. Non un documentario sull’Olocausto in particolare, ma sugli strumenti di ripresa cinematografica che forse non hanno ancora smesso di essere efficaci


(...)“Il problema che mi sono posta principalmente” dichiara la giovane regista durante un intervista “è stato come non umiliare ulteriormente, con il materiale recuperato, le vittime del documentario originale, come non entrare nella cerchia degli aguzzini delle immagini. Quello che mi ha colpito di più è stata la cecità con cui fino ad oggi è stato visto il documentario, prescindendo dall’evidenza che quelle immagini le avevano comunque girate i nazisti.” Non ci si chiede del perché questa pizza sia rimasta ignota fino ad oggi, ma si vuole certo affermare che, malgrado siano caduti diversi cartonati dalla fine della guerra, compreso quello di Cinecittà, la cinematografia rimane ancora l’arma più forte, almeno fino a quando non cadranno le immagini stesse, ancora padrone degli occhi di chi le guarda. 

Ilaria Calamandrei







guarda il documentario

e


guarda l'intervista all'autrice Yael Herdoski



Articolo comparso su 'Critica Sociale', n.8 2010